lunedì 27 settembre 2010

Come l’avanguardia fa ricerca. Moholy Nagy, Man Ray e l’errore.

Un esempio di come l’avanguardia riesca a spingersi oltre le norme imposte dall’estetica vigente, stabilendo nuovi orizzonti di esplorazione e significazione è rappresentato dalle esperienze di Man Ray e Moholy Nagy, che separatamente si sono cimentati con gli errori in fotografia.


Parlare di errore implica già in sé un elemento di rottura con l’ordine, la norma. L’errore infatti si configura come una deviazione da ciò che normalmente viene considerato “riuscito”, “giusto”, “buono”.
Ma simili giudizi di valore non sono certo universali, vengono bensì fissati dai riferimenti culturali di una società, di una persona, di un’epoca. E per ogni nuovo progresso o per ogni nuova generazione, quindi ad ogni nuovo cambiamento significativo, queste soglie di valutazione peculiari attorno cui ruota tutta l’identificazione di un contesto, vengono spostate in una nuova direzione, producendo spesso un’inversione di tendenza che riabilita ciò che in passato era oggetto di scherno e disapprovazione.


In fotografia l’aggettivo errato ha molte valenze, poiché può essere riferito a tre tipologie di “sbagli”:
- una defaillance tecnica dello strumento;
- una cattiva manipolazione dell’autore;
- un inconveniente nella ripresa del soggetto.

Le cause e gli effetti di questi errori, da sempre sono stati raccolti e raccontati in migliaia di manuali, elenchi, tabelle di fotografia da secoli, perché sin dall'inizio, con la diffusione di massa degli strumenti fotografici, gli operatori dilettanti potessero capire come evitare quelle pecche conosciute dagli addetti ai lavori, per ottenere delle foto pulite.
Quello degli errori quindi è un campionario molto vasto e conosciuto sin dalla nascita della fotografia, ma a dargli nuova luce e nuova forza ci voleva lo sguardo dell'avanguardia.


Il nemico della fotografia è ciò che è convenzionale, sono le rigide regole delle istruzioni per l’uso. La salvezza della fotografia sta nella sperimentazione. Colui che sperimenta non ha idee precostituite sulla fotografia. Non crede che la fotografia, come si pensa oggigiorno, sia la ripetizione e la trascrizione esatta della vista ordinaria. Non pensa che gli errori fotografici debbano essere evitati; sono errori banali solo da un punto di vista storico convenzionale.


László Moholy Nagy in Vision in motion, Chicago 1956

Moholy Nagy si interessò nelle proprie indagini dell’auto-ombromania, ovvero la proiezione involontaria della propria ombra sul soggetto che si vuole riprendere. Egli ne ha fatto un’operazione rivoluzionaria di significazione, introducendo volontariamente la silhouette nera del proprio corpo all’interno dell’immagine. L’ombra, interagendo col soggetto ripreso, mette in risalto l'autore, ponendo l'attenzione su come l’obiettivo fotografico non debba essere considerato un occhio onniveggente, ma lo strumento nelle mani di un operatore che lo dirige.


Un’operazione del tutto contraria alla ricerca di Moholy Nagy la effettua Man Ray, pittore, scultore e regista dadaista che ama definirsi “fautographe”. Il suo lavoro, più che a ricercare, tende a scoprire insolite forme espressive e lo fa per mezzo dell’errore, quasi fosse una cartina al tornasole che rivela nuove possibilità estetiche:


Quando facevo delle fotografie, quando ero nella camera oscura, evitavo di proposito tutte le regole, mescolavo le sostanze più insensate, utilizzavo pellicole scadute, facevo le cose peggiori contro la chimica e la fotografia.[…] Ho approfittato degli incidenti. I più grandi studiosi hanno approfittato del caso.


Man ray, Man ray fautographe, 1960


lunedì 6 settembre 2010

Una nuova via per la fotografia del 21° secolo: il CASODINAMISMO


Da “più vera del vero” a “più bella del vero”.
Come se il bello avesse ancora un valore. Ma così è se vi pare. La fotografia oggi è tutto fuorché attimo, percezione, fissaggio della realtà. Tramontata la stagione della meraviglia per la riproduzione del reale la fotografia si ammanta delle sue tecniche che la rendono patinata, definita, pulita, spettacolare, diva. Bella, perché non ha più niente da dire.

Da schietta documentaria a strumento filtrante. Niente appare come è. E ovviamente meglio così. Decostruzione del reale? Magari! Solo costruzione di un reale come vorremmo che fosse. Utopia dell’immagine.

Decostruzione si può tentare se abbandoniamo il compito che fu futurista di «rendere ciò che superficialmente non si vede» (A.G. Bragaglia), per rendere ciò che non potremmo vedere. Non più potenziamento dello sguardo che coglie gli attimi del movimento, ma decostruzione dello sguardo che cattura anche ciò che non esiste. Sabotaggio del linguaggio visivo attraverso lo stesso strumento che riproduce il reale e per mezzo del reale che funge sempre da soggetto. Nessun segno riconoscibile eppure reale, di fonte reale.

Il caso. La visuale caotica di un occhio vibrante e fuori fuoco, fuori controllo. Nuova bellezza di luci amorfe. Acuita sensibilità di ciò che arriva ad essere catturato senza un preordinato controllo.
Questo è il CASODINAMISMO.


Le immagini sono state realizzate in occasione della seconda edizione della Corsa Futurista, tenuta il 4 settembre 2010 al Circo Massimo, Roma.