domenica 31 ottobre 2010

Fofi, sul Dams armi giuste, bersaglio mancato

Non riesco a capire con quanto astio personale Fofi abbia voluto esprimere un evidente risentimento personale nei confronti del corso di studi universitario di musica e spettacolo, noto come DAMS.
Parlo di astio personale, perché le giuste critiche che si possono muovere al dams, diventano uno sfogo ingenuo laddove restano circoscritte al Dams, invece di ampliare lo spettro e riconoscere come i problemi di un simile corso di studi investano buona parte dell’università pubblica tutta.


Fofi parla di un corso di studi nato come scommessa dell’intellighenzia degli anni ‘70 per svecchiare quel sistema educativo passatista che non faceva i conti con il mondo contemporaneo. Peccato che il suo pur sensato giudizio sul fallimento di questa scommessa venga portato fuori strada dall’odio cieco:


Come è accaduto che, nonostante la buona fede e l’energia dei pionieri e di tanti degni insegnanti e artisti-insegnanti, queste scuole si siano rivelate col tempo un bluff? Il loro fallimento mi pare indubbio sul piano delle possibilità professionali: oggi i Dams sono una delle più attive fabbriche di disoccupati o precari”.


Il fallimento del Dams non risiede qui. Che dire allora degli sbocchi offerti da una laurea in Fisica o Matematica o, per restare in ambito umanistico, da una laurea in Lettere, antiche o moderne che siano o, ancora, in Filosofia? Perché additare le discipline di musica e spettacolo e tralasciare il discorso sugli occupati di altre facoltà? L’assenza di una reale possibilità di occupazione è solo una conseguenza di un problema che sta a monte e che è la vera sconfitta degli intenti del Dams, quella di voler portare lo studio universitario direttamente a contatto con il mondo contemporaneo.


Vi lascio leggere, a questo proposito, parte di un commento postato sul sito dell’Unità in risposta agli alterchi tra Fofi e Barilli che, come prevedibile, hanno scatenato una concitata folata di reazioni anche su altre testate. A commentare è Alessio, docente Dams e regista teatrale:


Credo che la struttura stessa del Dams abbia dei limiti nel suo statuto puramente teorico. C’è un problema di distacco tra studio teorico e studio pratico.[…] Insegno storia del teatro oltre che al Dams, anche all’Accademia di Belle Arti, al corso di scenografia. Gli studenti del Dams e quelli dell’Accademia partono da un’identica e colossale ignoranza[…]. Ma le nozioni di storia e di storia del teatro cadono su un terreno diverso nelle Accademie. Lì gli studenti sanno che un giorno faranno delle scenografie per il cinema, il teatro o la televisione, o almeno ci proveranno. Lì io so che loro stanno lì per questo. Tutto comincia a diventare più chiaro. Attenzione, più chiaro, non più semplice. La complessità della conoscenza che cerco di far acquisire agli studenti è la stessa, ma la chiarezza sul perché loro la acquisiscono rende le parole meno vuote. La storia, le immagini del passato si connettono a delle conoscenze materiali concrete e acquisiscono un’altra realtà. Anche quelle che parrebbero non essere relative a queste conoscenze concrete. Nel Dams spesso non è così, la dirigenza dell’Università a volte addirittura fa di tutto perché non sia così, perché ci siano ostacoli a laboratori pratici. Ma il problema non è tanto quello di fare laboratori pratici. Spesso le università li organizzano, ma il sapere esploso, non indirizzato, non connesso con nessuno sviluppo produttivo, lavorativo, dei Dams rende questi laboratori troppo disparati, non organici, ingeneranti confusione. Probabilmente perché la formazione del Dams sia più efficace, questa dovrebbe trovare connessioni SISTEMATICHE con le scuole d’arte, con i conservatori, con le scuole di teatro….


Il problema reale dell’università e dei corsi che hanno la pretesa di essere moderni come il Dams è che falliscono in quello in cui dovrebbero riuscire meglio, ovvero fare da collante con la società e con il mondo del lavoro. E questo lo dico da studentessa di scienze dello spettacolo, da studiosa che ha accarezzato il disorientamento che inevitabilmente si genera nel voler analizzare uno spettacolo ignorando come venga costruito. La netta distinzione tra pratico e teorico, quindi tra Accademia e Università, non ha alcun senso se non quello di alimentare una sostanziale ignoranza e alienazione da entrambe le parti, se non quello di continuare a produrre cittadini ed individui essenzialmente monodimensionali.


Ciò che io ho imparato in tutti i miei anni di studio al Dams di Lecce per la triennale, come in quello di Roma per la magistrale, è che la realizzazione in questo campo dipende dalla consapevolezza personale degli studi come degli insegnamenti, dall’iniziativa e dalla voglia. In definitiva dalla creazione di un percorso a latere dell’università che nessuno ti insegna, ma che è la strada per la maturazione profonda di ciò che hai appreso, una strada che per me è iniziata con il movimento avanguardista del net.futurismo.


Solo a questo punto ho afferrato la complessità di quegli studi che in ambito universitario rimanevano un sapere affascinante ma slegato da tutto il contesto. E' stato nel momento in cui sono entrata in contatto con la realtà artistica del net.futurismo che lo studio ha acquistato nuovo spessore poiché mi ha permesso di comprendere appieno il discorso sperimentale portato avanti dall’avanguardia.


sabato 16 ottobre 2010

Gli old media si pronunciano, il 2.0 risponde! Viste sulla cultura contemporanea tra Corriere della Sera e Net.futurismo.

Che la creazione dell’opinione pubblica sia affidata e gestita dai media è una teoria più o meno condivisibile che inizia a tramontare circa una decina d’anni fa, quando l’utente si ritrova tra le mani un piccolo gioiello di comunicazione reticolare che gli permette di diventare partecipe delle discussioni, creatore di informazioni e, soverchiatore delle agende setting.

Suscita curiosità allora imbattersi in un’intervista sui media e l’uso potenziale degli stessi nell’influenza sulla Cultura, emessa attraverso un affermato strumento di vecchia diffusione verticale del messaggio, ovvero un quotidiano nazionale come il Corriere della Sera, nel quale si invita uno stimato quanto stagionato accademico di Francia, Marc Fumaroli, critico, storico e professore al Collège de France a pronunciarsi sul panorama coevo e l’azione delle nuove tecnologie.

Nonostante l’intento sia nobile, ovvero risollevare le sorti della caucasica cultura, le parole e gli argomenti usati fanno rabbrividire: restauro, contemplazione, patrimonio artistico, garanzia dello Stato

“[…] la caduta del senso della qualità è evidente dappertutto, non nella sola Italia. Dipende dal fatto che la cultura in generale, sia del pubblico, sia degli autori, è notevolmente diminuita, in tutto l’Occidente. Il patrimonio artistico italiano non occupa il rango che gli spetta, non è capito come un forza spirituale per l’oggi… Avrebbe il potere di educare, di rendere distaccati dalla cultura pop di molti cittadini europei. Nel nostro mondo, servono dei luoghi dove riposarsi, raccogliersi […]”

Niente da fare, bisogna guardare al passato quale unica fonte di salvezza! Come dire, ancora (sigh!): “O tempora! O mores!”


Ma il futuro è già qui!
A questo indirizzo la risposta del 2.0, di chi un’avanguardia del terzo millennio non la invoca, la fa!

http://liberidallaforma.blogspot.com/2010/10/risposta-anticulturale-e-antiartistica.html


lunedì 27 settembre 2010

Come l’avanguardia fa ricerca. Moholy Nagy, Man Ray e l’errore.

Un esempio di come l’avanguardia riesca a spingersi oltre le norme imposte dall’estetica vigente, stabilendo nuovi orizzonti di esplorazione e significazione è rappresentato dalle esperienze di Man Ray e Moholy Nagy, che separatamente si sono cimentati con gli errori in fotografia.


Parlare di errore implica già in sé un elemento di rottura con l’ordine, la norma. L’errore infatti si configura come una deviazione da ciò che normalmente viene considerato “riuscito”, “giusto”, “buono”.
Ma simili giudizi di valore non sono certo universali, vengono bensì fissati dai riferimenti culturali di una società, di una persona, di un’epoca. E per ogni nuovo progresso o per ogni nuova generazione, quindi ad ogni nuovo cambiamento significativo, queste soglie di valutazione peculiari attorno cui ruota tutta l’identificazione di un contesto, vengono spostate in una nuova direzione, producendo spesso un’inversione di tendenza che riabilita ciò che in passato era oggetto di scherno e disapprovazione.


In fotografia l’aggettivo errato ha molte valenze, poiché può essere riferito a tre tipologie di “sbagli”:
- una defaillance tecnica dello strumento;
- una cattiva manipolazione dell’autore;
- un inconveniente nella ripresa del soggetto.

Le cause e gli effetti di questi errori, da sempre sono stati raccolti e raccontati in migliaia di manuali, elenchi, tabelle di fotografia da secoli, perché sin dall'inizio, con la diffusione di massa degli strumenti fotografici, gli operatori dilettanti potessero capire come evitare quelle pecche conosciute dagli addetti ai lavori, per ottenere delle foto pulite.
Quello degli errori quindi è un campionario molto vasto e conosciuto sin dalla nascita della fotografia, ma a dargli nuova luce e nuova forza ci voleva lo sguardo dell'avanguardia.


Il nemico della fotografia è ciò che è convenzionale, sono le rigide regole delle istruzioni per l’uso. La salvezza della fotografia sta nella sperimentazione. Colui che sperimenta non ha idee precostituite sulla fotografia. Non crede che la fotografia, come si pensa oggigiorno, sia la ripetizione e la trascrizione esatta della vista ordinaria. Non pensa che gli errori fotografici debbano essere evitati; sono errori banali solo da un punto di vista storico convenzionale.


László Moholy Nagy in Vision in motion, Chicago 1956

Moholy Nagy si interessò nelle proprie indagini dell’auto-ombromania, ovvero la proiezione involontaria della propria ombra sul soggetto che si vuole riprendere. Egli ne ha fatto un’operazione rivoluzionaria di significazione, introducendo volontariamente la silhouette nera del proprio corpo all’interno dell’immagine. L’ombra, interagendo col soggetto ripreso, mette in risalto l'autore, ponendo l'attenzione su come l’obiettivo fotografico non debba essere considerato un occhio onniveggente, ma lo strumento nelle mani di un operatore che lo dirige.


Un’operazione del tutto contraria alla ricerca di Moholy Nagy la effettua Man Ray, pittore, scultore e regista dadaista che ama definirsi “fautographe”. Il suo lavoro, più che a ricercare, tende a scoprire insolite forme espressive e lo fa per mezzo dell’errore, quasi fosse una cartina al tornasole che rivela nuove possibilità estetiche:


Quando facevo delle fotografie, quando ero nella camera oscura, evitavo di proposito tutte le regole, mescolavo le sostanze più insensate, utilizzavo pellicole scadute, facevo le cose peggiori contro la chimica e la fotografia.[…] Ho approfittato degli incidenti. I più grandi studiosi hanno approfittato del caso.


Man ray, Man ray fautographe, 1960


lunedì 6 settembre 2010

Una nuova via per la fotografia del 21° secolo: il CASODINAMISMO


Da “più vera del vero” a “più bella del vero”.
Come se il bello avesse ancora un valore. Ma così è se vi pare. La fotografia oggi è tutto fuorché attimo, percezione, fissaggio della realtà. Tramontata la stagione della meraviglia per la riproduzione del reale la fotografia si ammanta delle sue tecniche che la rendono patinata, definita, pulita, spettacolare, diva. Bella, perché non ha più niente da dire.

Da schietta documentaria a strumento filtrante. Niente appare come è. E ovviamente meglio così. Decostruzione del reale? Magari! Solo costruzione di un reale come vorremmo che fosse. Utopia dell’immagine.

Decostruzione si può tentare se abbandoniamo il compito che fu futurista di «rendere ciò che superficialmente non si vede» (A.G. Bragaglia), per rendere ciò che non potremmo vedere. Non più potenziamento dello sguardo che coglie gli attimi del movimento, ma decostruzione dello sguardo che cattura anche ciò che non esiste. Sabotaggio del linguaggio visivo attraverso lo stesso strumento che riproduce il reale e per mezzo del reale che funge sempre da soggetto. Nessun segno riconoscibile eppure reale, di fonte reale.

Il caso. La visuale caotica di un occhio vibrante e fuori fuoco, fuori controllo. Nuova bellezza di luci amorfe. Acuita sensibilità di ciò che arriva ad essere catturato senza un preordinato controllo.
Questo è il CASODINAMISMO.


Le immagini sono state realizzate in occasione della seconda edizione della Corsa Futurista, tenuta il 4 settembre 2010 al Circo Massimo, Roma.

mercoledì 28 luglio 2010

Percettori ottusi della realtà fotografica, dai tempi di Muybridge.

E va bene, l’input per questa riflessione non è dei più nobili, ma la sensibilità critica può anche richiamarsi a Dylan Dog qualche volta no?

L’immagine è tratta da I killer venuti dal buio, Dylan Dog n.78 (marzo 1993).
Sono nel lungo viaggio di ritorno verso casa in un Intercity notte, in partenza per le mie vacanze estive e decido che per passare nel miglior modo questa passeggiata di 8 ore è sensato iniziare con una sana dose di horror d’annata.
L’immagine in questione solletica il mio quinto senso e mez..., pardon, il mio senso estetico e, da ElisABIETTA quale sono, comincio a contemplare il senso appagante dello splatter. Ma non è il genere in sé che mi incuriosisce, quanto la precisione delle immagini disegnate. Più della fotografia filmica che non riesce mai veramente a raggiungere e fermare quel climax perfetto dell’istante nell’azione complessiva.

L’immagine perfetta. Quanto siamo condizionati da questa ricerca?
Quanto divario c’è tra la concezione armonica delle forme e dei colori nel nostro immaginario e la distorsione non colta delle immagini reali? Quale bellezza perseguiamo? Quella del pennello che fa più bella la natura o quella della fotografia che blocca spietata un istante della natura in divenire? Riusciamo a trovare graziosa la posizione totalmente antinaturale della Venere di Botticelli e ci vergogniamo se una foto ci ritrae con la bocca storta e gli occhi sgranati.
Ci burliamo dell’ingenuità dei primi malcapitati che di fronte al cavallo in corsa di Muybridge (1878) si scandalizzarono dell’istantanea in cui il cavallo, durante il salto, piega tutte e quattro le zampe sotto il ventre. Osceno e falso! Durante tutta la sua esistenza l’uomo aveva visto cavalli correre e saltare, ma mai librarsi in volo in quella posizione assurda! Che idiozia è mai questa? Che falsità racconta questa macchina fotografica?


Ma quanto superiori siamo noi a quella generazione se ad oggi ancora scartiamo via dall’album/togliamo la tag alle foto in cui siamo “venuti male”?
Che cosa cerchiamo nelle immagini? Poesia, intrigo, mistero, bellezza, particolarità, colori, forme, emozioni: una costruzione mentale aprioristica di quello che ci aspettiamo da un’immagine.
Siamo ancora gli stessi ingenui che non hanno accettato la parzialità dell’occhio umano nel captare gli istanti di un movimento complesso.

La perfezione di un istante. Non siamo ancora in grado di comprenderla. A più di 130 anni dalla prima volta.

martedì 1 giugno 2010

mercoledì 31 marzo 2010

VERSO L’aRTISTA CON LA a NANA. Indagine sull’evoluzione e il significato del ruolo sociale dell’artista. Parte prima

La lunga tradizione storico-artistica ci ha abituati ad identificare l’artista con Michelangelo e i suoi simili, pittori dunque o al massimo scultori. Negli ultimi decenni, tuttavia, l’avvicendarsi rapidissimo di molteplici linguaggi nelle opere d’arte ci ha costretti a fare i conti con una figura dell’artista che è ben altra cosa. E quindi, cosa è l’artista oggi?
Assistere ad una Biennale o semplicemente varcare le soglie di un museo d’arte contemporanea ci mette di fronte a situazioni, eventi, performance e installazioni che non sono più le semplici tele ad olio o a tempera così facilmente riconoscibili. La stessa categoria dell’arte è sempre meno definibile dato che al suo interno raccoglie tutto lo scibile umano, confondendone e diradandone i contorni.
Yves Michaud a tal proposito si chiede: se un’opera come lo scolabottiglie di Duchamp fosse stata proposta da un commerciante di articoli da cantina o da un idraulico, avrebbe potuto affermarsi con la stessa efficacia? Ovvero, le opere hanno una natura artistica che prescinde dal loro autore o tutto è semplicemente una questione di marchi?

Nelle attuali condizioni, essere un artista più o meno capace non ha alcuna importanza. Tutto ciò che regola il mercato dell’arte oggi è un delicato equilibrio fra artista, agenti, promotori, pubblicitari, galleristi, curatori, critici e mercanti.
Non che in passato ciò non sia mai accaduto. Il mondo dell’arte ha da sempre rappresentato un Olimpo dorato molto selettivo in cui gli uomini di libero pensiero esigevano di essere ammessi. Il raggruppamento di quelle che sono state definite le “belle arti”, le arti considerate cioè nobili, ha subito infatti una riclassificazione continua in virtù delle numerose battaglie che gli artisti delle varie epoche hanno condotto per la loro emancipazione.
Michaud scrive:
Le arti […] sono entrate una dopo l’altra nel panorama del mondo dell’arte riconosciuta. Nei casi in cui questo non sia ancora verificato, si esercita forte pressione per raggiungere l’obiettivo.

Alla luce di un’arte come categoria dallo statuto debole e quindi dai contorni amorfi, cosa significa oggi essere un artista? Chi può fregiarsi di questo titolo? Quali elementi determinano lo status di artista e chi lo legittima?
Su questi ed altri interrogativi nasce il seguente studio, che punta a sviscerare l’evoluzione del mestiere di artista dalle origini al mondo contemporaneo, cercando non solo di ricostruirne la storia, ma di fornire gli elementi critici per smascherare le contraddizioni ed inquadrare meglio una categoria che ha il vizio (o il pregio?) di sfuggire spesso ad ogni classificazione.

Innanzitutto il termine

Facendo risalire la questione alle origini dell’arte occidentale, ovvero al mondo greco, il termine “artista” ancora non esiste.
In realtà in Grecia non è neppure contemplato un termine unico che racchiuda il nostro moderno concetto di “arte”. Si parla tutt’al più di téchne come saper fare o di poiésis come fare creativo e pertanto non esiste nemmeno una distinzione tra artigiani ed artisti. Sono entrambi sullo stesso livello relegati nelle fasce più umili della società. O meglio, una differenza di prestigio c’è, ma, al contrario di quanto si potrebbe pensare, a svantaggio dell’artista, in seno ad una filosofia antimimetica.
Allo stesso modo l’ars latina designa in maniera molto estesa un’abilità acquisita con lo studio o con la pratica. Nel primo caso, ars si contrappone a natura e ingenium. Nel caso di abilità acquisita con la pratica, si contrappone a scientia. Niente a che vedere dunque con la derivazione semantica che farà del termine la moderna “arte”.
La condizione sociale dell’artista-artigiano dura fino al Medioevo. Intorno al Trecento si diffonde in Francia per l’artista il termine ouvrier, che indica letteralmente l’operaio, colui che opera nel sistema delle “arti meccaniche”. Nello stesso secolo con artiste, parola francese derivata dall’ars latina, si designa invece uno studente o magister della facoltà delle Artes, ovvero di lettere e filosofia. Più avanti, nel XVI secolo, il termine evolverà acquisendo un’accezione alchemica, ovvero diventa proprio di chi esegue operazioni chimiche.
Quando pittori e scultori, nel Cinquecento in Italia e dalla metà del Seicento in Francia, cominciano ad esigere un riconoscimento sociale emancipandosi dalle corporazioni e costituendo le Accademie, adottano ufficialmente il termine “artista” per definirsi e distinguersi dagli operai e dagli artigiani. Il riconoscimento sociale tuttavia avrà bisogno di una lunga gestazione e soltanto nel 1762 avremo la consacrazione ufficiale con il dizionario dell’Académie Française, che per la prima volta differenzia i termini “artigiano” ed “artista”, definendo quest’ultimo come «condizione di chi esercita un’arte in cui devono concorrere il genio e la mano».

martedì 23 febbraio 2010

Il feedback nella comunicazione di massa

Il feedback è quell’elemento che in un processo comunicativo regola le relazioni con il destinatario ed è ciò che distingue in maniera macroscopica la funzionalità di un sistema di comunicazione di massa contro quella di una comunicazione interpersonale. Il termine, che appartiene propriamente al mondo biologico e della fisica, è stato adottato per la sua funzione in molti campi della conoscenza, dall’economia alla psicologia dalla meccanica all’etologia. Il suo significato, nell’accezione più idonea, consiste nel ritorno in un sistema di una parte dell’output. In pratica, qualsiasi sistema di regolazione, naturale o artificiale, è organizzato in modo che parte del segnale in uscita viene riportato all’ingresso per regolare il segnale in entrata e ottenere così un segnale in uscita con le caratteristiche desiderate.

Ora, in un sistema di comunicazione interpersonale il segnale di ritorno viene captato al momento e questo consente all’emittente di modificare la sua comunicazione in fieri, per ricalibrare l’efficacia del messaggio. I sistemi di comunicazione di massa tradizionali, i quali non hanno un ritorno immediato, fanno invece affidamento su un feedback di tipo deduttivo, ricavato dalla vendita di copie o di biglietti nel caso di giornali e cinema, dai dati auditel e di ascolto per televisione e radio. Questo ovviamente comporta una distorsione della percezione nella rilevazione dei gusti medi di una società, sia perché i dati arrivano in differita rispetto alla fruizione, sia perché non se ne può ricavare nessuna indicazione sulla reazione del fruitore e quindi nessun elemento utile per ricalibrare il sistema e migliorarne le caratteristiche.

Se si inneggia a grandi ascolti perciò a volte è solo un errore di calcolo, che ne produce a catena, senza capirne fino in fondo i meccanismi che ne regolano la risposta, anzi spesso contravvenendo alle preferenze stesse del pubblico. E se pure l’effettivo gradimento non rappresenta una priorità rispetto al guadagno che deriva dall’audience, i media unidirezionali andranno comunque incontro ad una crisi, non tanto culturale, nella quale siamo all’apice, quanto di inefficacia nei vari tentativi subliminali di fidelizzazione, manipolazione e persuasione dello spettatore, il quale grazie ai media partecipativi tende sempre di più a sviluppare un senso critico che gli deriva dal confronto simultaneo.